Davini, a destra, ricevuto al Cremlino dall’«incaricato per la pace nel mondo»

 

  1962: Papi, capi di Stato, personalità della cultura e dello spettacolo si innamorarono di un disco sulla pace, tratto da poesie di bambini. Si intenerì mezzo mondo davanti a un uomo bresciano, franco e possente, Tino Davini, predicatore di pace quasi alla maniera di Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze cultore di allucinate e straordinarie visioni di beatitudini umane. Nel 1962 aveva inciso un disco della pace, tradotto in 8 lingue, finito sulle scrivanie delle più alte autorità. Così era stato invitato al premio Balzan, preso sotto braccia dal Papa Giovanni XXIII, affidato alle cure del cardinale Agagianian, di origine armena. Si era negli anni della distensione, ora si cercavano pacieri come prima si chiedevano guerrieri. Davini appariva subito ambasciatore di pace: ottimista, nemico degli spigoli. Ora, lasciamo per un momento qui, il nostro amico bresciano, sulle soglie del Vaticano, in compagnia dell’affascinante cardinale asiatico, Agagianian. Lo riprendiamo tra qualche decina di righe, dopo averne ripassato un po’ di esistenza. Tino Davini è morto nel 1983, una parte rilevante della sua vita l’ha spesa alla ricerca dei camposanti dove furono sepolti i soldati italiani. Nei camposanti della Russia disegnati dai cappellani, costruiti dai commilitoni, visitati e tenuti in fiore dalle contadine e dai contadini russi. I nostri cappellani, nel momento della sepoltura, collocavano una bottiglietta sotto l’ascella del cadavere e dentro vi infilavano un biglietto su cui scrivevano nome, cognome, luogo di origine, appartenenza militare, i dati necessari per essere riconosciuto e riportato in patria il giorno in cui la guerra fosse finita. «Italiani brava gente», prima del titolo di un film, fu il libero convincimento del popolo russo della steppa nei confronti dei militari italiani. Molti contadini russi della steppa furono dei cappellani in ombra, tacitamente delegati in terra straniera, tennero puliti, ordinati e rinfrescati di verde i tumuli dei camposanti italiani, tracciarono dei segni per distinguerli, riconoscerli, qualora lo stesso Dio avesse portato un giorno, in quel rettangolo, parenti e amici. Fecero di più con le fosse comuni, invisibili nella steppa anonima e all’ombra delle betulle. Appuntarono nella memoria i posti delle colline di uomini sottoterra, tennero pulita la superficie per un facile avvistamento futuro, ma non troppo pulita per evitare i sospetti delle guardie comuniste. Eppure, Tino Davini non era stato, prima di andarci, in Russia. Non era un reduce del fronte russo. Il suo fronte era stato l’Africa, il deserto invece della steppa, la prigionia dura degli inglesi. Un giorno, lo girarono come uno schiavo alla Legione Straniera, allo stesso modo in cui oggi accade di assistere alla vendita di un sequestrato, da una banda all’altra. Come mai, dunque, Tino Davini cercava la sepoltura, una croce, rincorreva l’identità di un soldato sconosciuto in una terra, sentimentalmente più lontana dell’Africa? Tino Davini era un uomo di pace, come tale amava uomini e animali. Un giorno si prese una pistolettata da un soldato della Legione straniera per aver difeso l’incolumità di un cane. Ne provò tante fino a convincersi, totalmente, che la pace è il più grande affare dell’anima e del corpo. Una pace che lieviti sulla pietà dei morti, mica il pacifismo peloso, parziale di chi è per la pace se per la guerra è il nemico di sempre. Erano stati i disegni, spiega adesso sua moglie, le carte affidategli da monsignor Pintonello, cappellano capo del Corpo di spedizione italiano in Russia, ad avvicinarlo alla ricerca. Siamo tornati di nuovo ai piedi del Vaticano, al premio Balzan, lì avevamo lasciato Tino Davini con il disco della pace a fianco del cardinale Agagianian. Le vicende buone dei buoni camminano su sentieri semplici, non è un adagio indiano, è il succedersi delle azioni nel quotidiano. Dal Vaticano, Tino Davini passa in Russia grazie alla dote delle carte cimiteriali del cappellano, monsignor Pintonello e per un incarico di Agagianian. Il cardinale consegna a Davini un disco della pace per il leader maximo Nikita Krusciov, neo anti Stalin, uomo della campagna, il semplice del nuovo corso, capace di battere le scarpe sui tavoli dell’Onu e di trattare, raffinatamente, nelle cancellerie del mondo. Agagianian suggerisce a Davini di chiedere, in cambio del disco di pace, il ritorno in patria del corpo di un soldato italiano sepolto nei camposanti disegnati e fatti costruire dai nostri cappellani militari. Detta così, sembra la favola di Pinocchio, il passaggio nei meandri del potere con un colpo di bacchetta magica. Accertato che la diplomazia sotterranea si sarà mossa parallelamente al disco della pace, ricordato che il momento storico era di grandi aperture, di distensione, come si legge satiricamente in Guareschi, fatto sta che Krusciov, prima ancora di ricevere l’invito di Davini, lo anticipa, invitandolo a Mosca. L’affare della pace si conclude con la concessione di una salma. Tino Davini parte, in tasca si porta cento dischi della pace, le parole di Agagianian, le carte dei camposanti di monsignor Pintonello, due corone di alloro da deporre sulla terra di Nikolajewka. A Tino Davini gli pare di stare dentro le pareti appiccicose di un sogno bello, in un cavo senza gravità, cammina e invece vola. Viene invitato al Cremlino, lo attende il potente uomo di Krusciov, Kotov, il potente segretario per la Pace dell’Unione Sovietica. Inizia la trattativa lunga ed estenuante per il ritorno delle salme. Intanto gli viene concesso di portare in Italia una valigia riempita della terra di Nikolajewka. Una volta a Brescia, proprio nella sede del nostro giornale, avviene una cerimonia toccante: padre Marcolini benedice quella terra di dolore, intrisa anche della memoria di migliaia di persone. Si riempiono molti sacchetti, vengono distribuiti nei sacrari disseminati nel nostro Paese. Grazie a Tino Davini, centinaia di famiglie rimettono ordine al loro dolore, non lo dirigono confusamente in un punto dell’infinito, in un bosco, su un fiume, nell’avallamento di una Russia descritta e realmente illimitata, ma conoscono il punto della congiunzione tra un corpo, uno spirito e una preghiera. Pregare nel posto in cui sei nato, sulla tomba di una persona cara, che è nata lì, come te e con te che la preghi, sapendo che la direzione del colloquio è quella giusta, è un conforto, l’attenuazione di una mortale disperazione, la resistenza all’assenza del figlio. Un dolore ordinato è un dolore meno oneroso, abbassa la barriera della sua invincibilità. È un dolore almeno diretto, legato a un posto dove potrai rivolgere al figlio soldato, con certezza, la speranza immensa di ricominciare a parlarsi nell’intimità, con la memoria, il dialogo con l’immagine sopra il corpo, la dolcezza di un viso, di uno sguardo ogni giorno diversi. «Oggi la mamma è arrabbiata... non vedi come ci guarda...». Si sente dire così, ogni tanto, nei nostri camposanti, passando vicino ai figli che sistemano i fiori vicino all’immagine. Le casse e le cassette di zinco, coperte dalla bandiera tricolore, tornavano sui selciati dei paesi in quegli anni. Chi non ha assistito, anche solo visivamente, al volume di tristezza alzato da una tremenda idea di assenza, appena colmata dai passi serrati della comunità intera intorno al padre e alla madre, non conosce la prima lettera di pietà per il soldato di 20 anni tornato a casa dopo 20 anni. La loro esistenza intera è stata lunga come la loro assenza da casa. Dunque, il ritorno è una remunerazione corale a chi è rimasto solo, una sorta di condivisa colpevolezza inconscia per quella distanza. Poi è accaduta un’altra bella pietà. Tino Davini muore nel 1983. Muore, ma alcuni ritorni rimangono sospesi per aria. Le pratiche, le eterne pratiche di carta, che uccidono anche dopo la morte, finalmente vengono pronte per alcuni soldati. Tino Davini non c’è più, la moglie Adele Turelli continua la sua testimoninza, almeno per quei corpi sospesi tra Russia e Italia, Brescia e Karhov. Le cartine dei camposanti hanno liberato tanti nomi, i timbri sono stati messi, l’attesa, per la moglie di Angelo Bogarelli da Dello, sembra terminata. L’ultima telefonata di conferma al generale Ricchezza, a Milano: «Sì, è proprio Angelo Bogarelli, è morto, una ferita profonda all’addome. È stato sepolto nel cimitero di Singin, numero 35...». Il prisma di zinco, intessuto di bianco rosso e verde atterra in Italia e mentre incomincia l’ultimo passaggio dall’aereo in macchina, muore la moglie di Angelo Bogarelli. Il destino si è avvitato su se stesso in un numero implacabile: Bogarelli torna, sua moglie Barbara Piccioni, 1984, muore dopo averlo atteso 40 anni. Il paese li accompagna al camposanto. Non ci sono parole, si alza la potentissima rassegnazione delle persone umili, quando vengono attaccate a tradimento perfino da una morte che imbroglia nonostante si sia impadronita di ciò che voleva. Allora, le persone umili si piegano tutte insieme a testuggine, si piegano il corpo così che il funerale si dispone in un inchino, nella somma di mille teste reclinate, ma si rispetta la linea di marcia diritta verso il camposanto. Così che le lacrime perdono il solco del viso fino a raggiungere un movimento di caduta, una cascata di umidità, come se piovesse del pianto, il cielo fornisse la sua parte di dolore. Niente rimane fuori dalla partecipazione di questi lutti. I funerali raccolgono la stessa unanimità dell’ultimo assalto. S’inizia e si finisce alla stessa maniera. Tino Davini, dall’Africa alla Russia, passando per i palazzi inaccessibili e le isbe più basse, è l’esempio credente che le odissee si possono ripercorrere al contrario, che la fine per sempre non esiste: si può riprendere il viaggio con chi era rimasto indietro. E si può volgere lo sguardo oltre il tumulo. Contro il vuoto angosciante che prende ognuno, quando, a sera, ci manca il respiro di uno di noi e si esige di rivederlo. Al costo di iscrivere l’anima a un corso di fede da cui si era ritirata, attaccata da un nevischio improvviso, circondata nella sacca dell’indifferenza, rifugiata, intanto, in un’isba fraterna.

«Lo prego così», una poesia per un amico alpino Caduto
IN DIALETTO BRESCIANO

Él préghe issé

Al camposant tra nèbie e memòrie, só capitat al dù de nóember èn font a le cinte; én dò gh’era ’na crùs de lègn sènsa finte, con èn nom d’èn soldàt de ’n altra naziù; desmentegat e sènsa deuziù. Èntat che ardàe le erbe bagnàde e me domandàe: «Quacc agn garàl ’vit, en dó sarala sò mader?» Me passa de fianch ’na fomna còi fiùr, dai càei zà bianch e dù öcc dè dulur. Ardando en ciprès per mìa daga empas, fó alter dù pas, ma sübit de pres la ède en zönöcc; e stando lé issé, sente i sò requiem tat compicc, de fam restà lé; fin quando la mé arda, e per forsa che parle. «Sala chi l’éra? La cunussiel?» «No siòr, mé só de Brèssa; Ogni agn vegne ché; gó èn fiöl sóta tera, restat a Nikolajewka, e mé èl préghe issé».
Lo prego così

Al camposanto tra nebbie e memorie, sono capitato al due di novembre in fondo alle cinte; dove c’era una croce di legno trascurata con un nome di un soldato di un’altra nazione, dimenticato e senza devozione. Intanto che guardavo l’erba bagnata mi domandavo; «Quanti anni avrà avuto, Dove sarà sua madre?» Mi passa vicino una donna coi fiori, dai capelli ormai bianchi e due occhi di dolore. Guardando un cipresso per non disturbarla, faccio altri due passi, ma subito appresso la vedo in ginocchio, e sentendo recitare le sue preghiere così sentite, di farmi restare lì sorpreso; gin quando mi guarda e allora le chiedo. «Sa chi era? Lo conosceva? «No signore, io sono di Brescia; Ogni anno vengo qui, ho un figlio sotto terra restato a Nikolajewka, ed io lo prego così».

Signor Direttore, ricorre il 60° Anniversario della famosa battaglia di Nikolajewka, nella nostra città. Le chiedo per cortesia, se potrebbe mettere sul suo Giornale, da me molto affezionato lettore, la copia di questa poesia dialettale (veda la copia foglio), spedita con la presente lettera. Questa poesia era stata scritta da una persona di Brescia (signor Davini) negli anni Cinquanta. Io l’avevo ascoltata tramite un micro-disco 45 giri e mi aveva colpito nelle parole recitate dallo stesso autore. Credo che molti lettori del suo Giornale, specialmente gli Alpini ne saranno contenti. Il titolo della poesia (Él préghe issé) era a ricordo del sottotenente degli Alpini Sandro Bonicelli, Medaglia d’argento al valor militare Caduto proprio a Nikolajewka. Faccio presente che non sono alpino, non ho fatto il servizio militare, ma sono un simpatizzante Ana di Cortenedolo-Edolo. Da tanti anni partecipo alle varie Adunate alpine e sono fortunato di avere un amor patrio e sento il dovere come cristiano, e civile, di ricordare tutti quei Caduti di 60 anni fa, naturalmente anche varie forze dello Stato, ma gli Alpini sono Alpini! Sentiamo il bisogno di vera pace e non più di guerra, come si è espresso il sommo Pontefice nel periodo natalizio ed anche il presidente della Repubblica che hanno lanciato a tutti i popoli del mondo. Amore e gloria alle Divisioni alpine: Tridentina, Julia, Cuneense, ecc. GIANNI TIBERTI - Brescia

7 dicembre 2003



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